Ha attraversato Oriente e Occidente incontrando migliaia di volti provenienti da culture lontane. Cercava l’essenza dell’umanità. Nel suo sguardo c’è la gioia del viaggiatore e nelle sue parole una delicata empatia verso il prossimo. Molti ne parlano come di una leggenda mondiale, ma lui preferisce definirsi più semplicemente “un raccontatore di storie”. È Steve McCurry, una delle voci più autorevoli della fotografia contemporanea. Nato nei sobborghi di Philadelphia nel 1950, dopo la laurea in Cinematografia alla Pennsylvania State University, inizia a collaborare come fotografo con un giornale locale e poco dopo lascia gli Stati Uniti per lavorare come freelance nel subcontinente indiano. Ma il desiderio di andare in prima linea lo spinge oltre il confine dell’Afghanistan dove, controllato dai ribelli poco prima dell’invasione sovietica, fa il suo ingresso clandestino per raccontare la brutalità della guerra. Qui è l’unico fotogiornalista occidentale. Da quel momento non si ferma più. Viaggiando dieci mesi l’anno, prima in Kuwait, poi nel Libano e in Cambogia, fino al Tibet, documenta ogni angolo del mondo attraverso la lente di una macchina fotografica. La stessa che in oltre cinquant’anni di carriera gli ha permesso di ricevere i più importanti premi di fotografia, dalla Robert Capa Gold Medal al concorso World Press Photo. E più recentemente, la Medaglia del Centenario alla carriera dalla Royal Photographic Society di Londra, oltre all’inserimento nella International Photography Hall of Fame.

Uno stile inconfondibile (e inimitabile)

Culture, tradizioni, rituali, ma anche contrasti, conflitti e catastrofi ambientali: sono loro che alimentano l’arte del celebre fotografo americano. Convinto che siano i soggetti più deboli dell’umanità a raccontare grandi storie su quanto accade nel mondo, ma altrettanto consapevole di come il suo lavoro non possa rappresentare un reale cambiamento per le persone, McCurry è alla costante ricerca dell’uomo e della sua anima, quella più genuina. Pensiamo al celebre ritratto della ragazza afghana, immortalato in un campo profughi in Pakistan nel 1984. A Camels on oil fire, rappresentazione apocalittica delle ripercussioni della Guerra del Golfo. O ancora a Boy in Mongolia, primo piano di un ragazzo che comunica al tempo stesso fragilità e determinazione. Sarà forse lo spiccato istinto di McCurry, la sua incontenibile sete di conoscenza, o forse l’uso del colore e della luce morbida del mattino, l’attenzione ai dettagli, l’approccio antropologico, ma il suo stile è inconfondibile. Sono sempre stato affascinato da determinati luoghi e non ho mai sentito l’obbligo di andare in altri per puro senso del dovere. – racconta con delicatezza – Sono Asia, Africa e America meridionale che soddisfano quella vena creativa che sento dentro”.

Steve McCurry in Italia per la mostra “Children” e il progetto “Devotion”

Grande amante dell’Italia, dopo aver immortalato la vita nelle strade di Venezia, Perugia, Ischia, Ragusa e tante altre con la sua street photography, ha deciso di ritornare nel Bel Paese. Questa volta per una tappa a Genova, dove a Palazzo Ducale è stata presentata la sua mostra “Children”. Protagonisti dell’allestimento i bambini del mondo. E i loro occhi. Quegli occhi talmente espressivi da inchiodare lo spettatore davanti alle immagini esposte e portarlo senza vie d’uscita a interrogarsi sulle loro storie personali. Sono storie di vita, storie di infanzia. Storie di responsabilità etica e sociale. Una responsabilità che i popoli del mondo hanno assunto attraverso la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 1989 che, attraverso la ratifica è diventata legge dello Stato in Italia nel 1991. Il reporter è poi stato ospite anche delle Gallerie d’Italia a Torino per presentare “Devotion. Amore e spiritualità”, un nuovo volume fotografico di oltre 100 scatti (di cui 75 inediti) edito da Mondadori Electa che racconta i mille volti della devozione. Un sentimento tra i più potenti al mondo che, secondo McCurry, si esprime in diverse declinazioni: amore, impegno, fede, amicizia e dedizione. Ed ecco i volti di nomadi in preghiera, i ritratti di monaci buddisti, bambini intenti a studiare, padri che si prendono cura dei propri figli, una coppia anziana che si sostiene per strada, ancora con amore. “Il concetto di devozione mi ha sempre affascinato: penso a Madre Teresa che con grandissimo altruismo ha dedicato la propria vita agli altri, andando là dove nessuno voleva andare. – spiega durante l’incontro realizzato dal Salone Internazionale del Libro di Torino – ma ci sono altri esempi più vicini ai giorni nostri, come Gino Strada e gli ospedali di Emergency nelle zone di guerra, dove ci sono medici e infermiere che lasciano il comfort delle loro case e magari lavori meglio pagati per andare in zone di guerra in cui talvolta rischiano la vita”.

Un pensiero a Gaza e all’Ucraina

Proprio parlando di attualità e di guerre nella mente del fotografo si fanno vivide le immagini di Gaza e dell’Ucraina. “Sono sempre andato dove sentivo che c’era bisogno del mio aiuto e se oggi potessi scegliere sicuramente andrei a Gaza, anche se ora non è accessibile. In Ucraina invece sono stato due volte: lì ho visto centinaia di villaggi completamente distrutti, tutto era stato raso al suolo, città fantasma dove mancava tutto. – continua durante la serata torinese – Ero circondato dalla morte, tutti i giorni, veramente un ambiente infernale in cui mancano gentilezza e umanità”. Ha visto l’inferno, eppure il suo sguardo emana positività e speranza. “Voglio essere ottimista, anche se a volte succedono cose che il cervello fa fatica ad elaborare: basta vedere come trattiamo gli animali o quanti sono realmente interessati al cambiamento climatico o ad avere acqua e aria pulita. Certamente abbiamo fatto progressi anche in termini di protezione dell’ambiente, ma c’è ancora tanto da fare. E lo stesso vale per i diritti umani”.

La fotografia come linguaggio universale

Per McCurry la fotografia è un linguaggio universale che può viaggiare e parlare a tutto il mondo. “Sul mio telefono credo di avere circa 160mila foto di mia figlia, della mia famiglia e dei miei amici, un bel modo per documentare la mia vita. Ma credo anche nell’importanza della stampa, per questo sono convinto che le immagini che davvero ci stanno a cuore vadano stampate. Io, per esempio, ne ho migliaia impresse su carta che tengo nel mio archivio per assicurarmi che quando non ci sarò più resti un mio segno tangibile”. Migliaia sono le foto stampate, come migliaia sono quelle sfuggite alla lente del fotografo. Ne parla sorridendo: “Mi è capitato spesso di riguardare gli scatti che avevo appena fatto con gli occhi fissi sulla macchina fotografica per poi accorgermi che mi ero appena perso il momento perfetto”. Ma la fotografia è anche questo, un inseguimento continuo dell’attimo giusto. “È inutile restare a piangere sulle opportunità mancate, bisogna andare avanti, fare altri tentativi e credere nell’attesa, perché è lì che accade la magia”. Poi, seguire il cuore, essere coerenti e andare dove è possibile esprimere a pieno la propria creatività. Essendo però consapevoli che il mestiere del reporter richiede tempo, pratica, sforzo e disciplina. È questo che, secondo McCurry, deve fare un artista bramoso di successo. “Solo così è possibile dare vita a qualcosa di meraviglioso”.

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